Profilo architettonico

Il già menzionato disegno colorato a pastello, del “pubblico perito agrimensore” Alberto Cian, collaboratore per molti decenni del proprietario dell’ epoca Guido Erizzo, di datazione sicuramente anteriore al 1811 in quanto la località risulta indicata con il toponimo “Roverè”, offre una precisa immagine “a volo d’uccello del fronte sud di tutto il complesso architettonico e degli immediati dintorni e costituisce, assieme al “Catastro e Disegni” del 1842, sempre a firma “Alberto Cian”, una guida importante per la conservazione del complesso monumentale.

Nel disegno “a volo d’uccello” sopramenzionato risultano nettamente delineati i due piani dell’edificio centrale con le finestre arcuate al piano terreno e rettangolari al primo piano, il poggiolo, il marcapiano un leggero abbaino e due pinnacoli al lato del tetto.

Le ali rientranti sono ambedue di eguale fattura ed altezza, hanno ai due lati due camini di foggia carpaccesca e risultano separate dalle barchesse arcuate da due “orteseli” il cui geometrico disegno li fa però sembrare due piccoli giardini. Davanti alla costruzione, allargandosi da una parte all’altra delle barchesse, un amplio “salizo”: pavimentato con “masegni” in pietra d’Istria e, più oltre, uno splendido giardino all’italiana con bordure ed aiuole finemente disegnate.

L’impianto interno dell’edificio “dominicale” non riprodotto ovviamente nel disegno di cui sopra) ha la struttura collaudata delle costruzioni veneziane.

Due saloni sovrapposti di eguale misura, con pavimenti in terrazzo alla veneziana e soffitti sansovineschi e otto stanze (quattro più quattro) che girano attorno ad essi. Nella villa di Rovarè il “passo” cioè la stanza tra una trave squadrata e l’altra del soffitto alla sansovina è diverso tra salone e stanze a pianterreno da quello dei soffitti del piano superiore, facendo ipotizzare un diverso momento di realizzazione tra i due piani.

E’ quindi da ritenere che all’originale configurazione cinquecentesca consistente in un piano rialzato sia stato aggiunto, verso la fine del Seicento, il piano superiore raggiungibile da un elegante scalone, che, architettonicamente, è l’episodio più rilevante della villa ed ha,  unitamente al ballatoio in marmi policromi del detto scalone, i connotati certi di una firma illustre: quella di Baldassarre Longhena.

La tipologia dello scalone di Rovarè (modanatura della colonna, parapetto, pianerottolo con decorazione geometrica in marmi policromi) richiamano con singolare assonanza lo scalone, realizzato dal grande architetto, nel convento dei padri Somaschi alla Salute di Venezia, evocandone la suggestiva monumentalità entro uno spazio contenuto. Immettono nello scalone, sia dal basso che dal piano superiore, due archi con cornice modanata in pietra d’Istria culminanti con chiavi di volta finemente scolpite: baffuti guerrieri con elmo piumato (come gli schiavoni di Cà Rezzonico) al piano terra e aggraziati volti di figure femminili, con folta capigliatura, al piano superiore.

Tre degli archi, all’altezza d’imposta del capitello, sono ornati da “mezzelune” lignee scolpite, a inflorescenze e racemi, di accuratissima fattura e racchiudono lo scudo su cui spiccano dorati i simboli araldici dei Navagero: due bande sormontate dalla croce greca.

Poiché il grande, anziano architetto Baldassarre Longhena, ovviamente con altri collaboratori stava eseguendo negli anni che precedono il 1680 l’innalzamento dei suoi disegni, poi modificati, della contigua sfarzosissima Villa Da Lezze, non è azzardato supporre che abbia approntato su richiesta di un personaggio benemerito e titolato come Andrea Navagero (e come aveva fatto per il disegno delle scale di casa Erizzo alla Maddalena in Venezia) il progetto dello scalone per unire i due piani della dimora che “l’ultimo dei Navagero” stava allora ristrutturando.

Altro elemento notevole all’interno della dimora patrizia di Rovarè è il caminetto costituito da una elegante cornice a spessori sovrapposti in marmo rosato richiamante i modi di Alessandro Vittoria, ma sormontato da elementi decorativi in stucco già baroccheggianti, con lo stemma decorato dei Navagero e la mitica fenice: l’uccello che rinasce dal fuoco della sua distruzione.

L’esterno delle due facciate, diviso a metà da un marcapiano, è molto articolato, con poggioli e cornici delle finestre in pietra d’Istria. Abbelliscono la facciata, quella che si affacciava sulla strada pubblica, gli stemmi marmorei molto elaborati, con elmo, volute e piumaggi, dei Navagero e degli Erizzo, mentre al sommo del timpano abitabile, aggiunto con inserimento discretamente armonico nel 1901, campeggia, in più ridotta misura, lo stemma dei Marino imparentati con i Dalla Rovere in allora proprietari del complesso.

L’altra facciata, quella rivolta a sud da cui si allungano le barchesse, è ornata da una meridiana da uno zodiaco con paesaggi affrescati in monocromo forse di fattura tardo ottocentesca.

Molto eleganti, architettonicamente parlando, per l’articolazione degli spazi, del gioco dei pieni e dei vuoti e per il rincorrersi delle arcate, di cui purtroppo, una parte accecate agli inizi del secolo scorso per esigenze agricole, sono le due barchesse che si allungano come due monumentali braccia, verso il verde giardino e del brolo.

Gli archi, a tutto sesto, sono incorniciati dall’alternarsi delle paraste in perfetto “ordine toscano” (che Jacopo Barozzi detto il Vignola nel cinque ordini dell’architettura civile) movimentando il susseguirsi degli elementi architettonici e dei vuoti con effetto quasi solenne.

Tale tipologia stilistica è ripresa dal proprietario Guido Erizzo (nel 1818) nella facciata del nuovo oratorio, venezianamente dedicato alla Madonna del Rosario modificando con accortezza una pregevole tela, con tutta probabilità databile agli inizi del Settecento, del capodistriano Francesco Trevisani, rappresentante invece la Vergine del Carmelo.

Per rendere più agevole il poco percorso che dalla casa padronale raggiunge la foresteria, dove realizza importanti migliorie, il sempre più intraprendente Guido Erizzo “inventa”  la costruzione di un portichetto utilizzando le agili colonnine, provenienti dalle cedraie della vicina Villa Da Lezze.